Diversi come noi |
2 ottobre 2011
Per un tempo nuovo. Nuovi stili di relazioni umane
Abbiamo il coraggio di credere che un mondo diverso è possibile! È l’invito lanciato domenica 2 ottobre dai Centri Missionari dell’Emilia Romagna agli oltre 500 partecipanti al Meeting Missionario Regionale, organizzato a Bologna, presso lo Studentato per le Missioni dei Padri Dehoniani. Una giornata di festa, di incontri e testimonianze sul tema scelto per la sesta edizione, “Diversi come noi. Per un tempo nuovo, nuovi stili di relazioni umane”, affrontando l’argomento della diversità sotto vari punti di vista, oltre gli stereotipi consolidati. A introdurre la giornata sono stati gli interventi di don Fortunato Monelli, Coordinatore dei Centri Missionari Diocesani dell’Emilia Romagna, Mons. Giovanni Silvagni, Vicario Generale di Bologna, Mons. Lino Pizzi, Vescovo Delegato dalla Conferenza Episcopale dell’Emila-Romagna per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, e p. Luca Zottoli, dehoniano, che ha coordinato la tavola rotonda presso il teatro Dehon ricca di testimonianze sulla diversità da vivere non nel solco della spaccatura, ma nella dimensione della comunione, della condivisione.
Cristina Simonelli, teologa che vive tra i Rom a Verona, ha richiamato l’esempio di Edith Stein, quando, nei drammatici anni del nazismo, sentì come una testimonianza dovuta e un servizio alla verità scrivere il libro “Storia di una famiglia ebrea”, perché tanti giovani tedeschi vedessero il lato autentico delle vicende, delle persone, anziché confrontarsi con uno specchio deformante della realtà che ne fa una caricatura devastante, creando mostri, scatenando un terrore generalizzato. “Noi viviamo lo specchio deformante delle diversità che alimenta le paure – ha osservato la teologa – . Ho avuto la fortuna di vivere in un contesto rom e solo così ho potuto capirlo, perché solo attraverso l’incontro posso conoscere le persone. E tutte le paure sono sparite. Anche loro, insieme con gli ebrei, sono stati colpiti dai nazisti. Sono rimasta con loro per il “dovere” della testimonianza, di prendere la parola per dire che lo specchio deformato fa male a tutti. Nell’Apocalisse si legge che “è stato precipitato l’Accusatore, colui che accusava i nostri fratelli” e lo dobbiamo dire, proclamare. Non sottovalutiamo le parole, le logiche di disprezzo diffuse ovunque, come alle feste dei popoli padani, dove è stato detto “eliminiamo i rom!”. Le parole creano mondi, colpiscono nel cuore e nelle menti. Non formiamo città di esclusi, ma le città siano casa per tutti, in particolare per le persone più in difficoltà”. L’invito a ripensare la cittadinanza, a liberare la creatività nell’individuare strumenti per includere e non escludere le persone dalla città, è venuto da Domenico Finiguerra, giovane sindaco di Cassinetta di Lugagnago (MI), comune di 1.800 abitanti immerso nello splendido Parco naturale del Ticino, riserva della Biosfera Unesco. È il primo comune in Italia ad aver approvato un Piano regolatore che esclude la possibilità di edificare occupando nuove superfici. Non solo. L’amministrazione ha adottato misure innovatrici in campo ambientale e provato a creare nuovi modi, creativi ed efficaci, per migliorare la vita della comunità, per ridisegnare il territorio creando luoghi d’incontro, senza consumare risorse ma, anzi, preservandole per le generazioni future e rilanciando l’abc della politica: Ambiente, Beni comuni, Comunità. Un modello da proporre ad altre realtà locali nel tentativo di migliorare gli stili di vita e frenare il processo autodistruttivo del Paese. Eletto nel 2002 e riconfermato nel 2007 alla guida di una lista civica, senza nessun legame con i partiti, Domenico Finiguerra è conosciuto per aver scritto, a seguito di spiacevoli episodi di razzismo avvenuti in Italia, una lettera aperta, “Esiste un’altra Italia”, in cui denunciava la preoccupazione per il diffuso “rancore preventivo” nei confronti di chi è straniero, di chi professa altre religioni rispetto a quella cattolica, di chi è diventato vicino di casa… “La politica spesso non entra in questi discorsi – ha detto il sindaco – per non sollevare questioni o per non perdere consensi. Allora ho scritto questa lettera aperta ai cittadini, in cui ho espresso la mia disapprovazione verso certi atti di razzismo che ritengo criminali. Da un lato temevo una reazione negativa, dall’altro era come una sfida. La risposta è stata positiva da parte dei cittadini. Le verità scomode non si vogliono mai dire, ma credo che sia importante l’onestà intellettuale. Ho inviato la lettera a tutti i sindaci d’Italia ma ho avuto solo una decina di risposte, tra cui quella del sindaco di Riace che ha fatto rinascere il suo paese accogliendo gli stranieri. Bisogna avere il coraggio di dire la propria indignazione, senza avere paura di perdere il consenso, e fare il vero bene comune”. “Penso che la Chiesa possa far calare la sua autorità morale per ridare a tre parole il loro giusto posto: competitività, precarietà e avidità. Dovremmo essere solidali e non competitivi, dovremmo ridurre la precarietà e riflettere sulla diffusa avidità che avvelena i cuori e colpisce i più deboli”.A fare le spese del modello di sviluppo adottato dal Nord del mondo sono i popoli più poveri. A richiamare l’attenzione sulla situazione in Africa è stato un missionario dehoniano, Mons. Elio Greselin, Vescovo di Lichinga (Mozambico). La sua diocesi ha 21 preti, per un territorio che conta un milione e mezzo di persone. “Vivo in foresta come missionario tra la gente, che in prevalenza è musulmana. Io sono il vescovo di tutti, anche dei musulmani, perché desiderano stare con noi, ascoltano e collaborano. C’è gioia di condividere tutto, anche il ramadan. Io tengo il Corano vicino alla Bibbia, in segno di rispetto. Dobbiamo imparare a convivere con la diversità, che è la cosa più bella fatta dal Signore”. “Dobbiamo anche imparare a rispettare il loro territorio. L’Africa negli ultimi anni è cambiata, ma resta la sede delle ricchezze del mondo; gli africani lo hanno capito e non accettano più di essere sfruttati. Il futuro di questa gente è triste perché stiamo svendendo le grandi ricchezze di questi popoli. Basti pensare al Congo e alle guerre che vi si sono scatenate”. Sono 22 le principali guerre registrate nel mondo. Guerre che spingono le persone a migrare, ad abbandonare la propria terra, la casa, gli affetti. Migranti non per caso, ma perché costretti. Le cause possono essere molteplici: conflitti, disastri ambientali, inquinamento, mancato accesso all’acqua o al cibo. Impressionanti le cifre riportate dal Direttore generale della Fondazione Migrantes, Mons. Giancarlo Perego, intervenuto al Meeting per riflettere sulla situazione attuale. “Ogni anno un miliardo di persone lascia la propria casa e si mette in cammino – ha detto – , di cui 5 milioni arrivano in Italia e tra questi vi sono più di 8.000 bambini. Solo 83 comuni hanno accettato di accompagnarli e seguirli con un percorso. Come Chiesa, che vuole annunciare il Vangelo ed essere compagna di viaggio degli uomini, non possiamo non accorgerci di questo movimento di persone. Evangelizzare oggi significa accorgersi dell’altro e non avere paura delle diversità. E invece 8 italiani su 10 hanno paura, secondo le indagini fatte nella Chiesa. Dalla ricerca condotta dalle comunità di Bergamo è emerso che a non aver paura dello straniero è la persona che l’ha incontrato e conosciuto”. “Dovremmo creare nelle nostre parrocchie dei luoghi d’incontro e non lasciare sole alcune realtà che stanno cambiando, come la scuola, dove gli insegnanti hanno più del 30% di studenti stranieri. Oggi, poi, ci sono in Italia 400mila coppie miste: il 90% non ha celebrato il matrimonio né in comune, né in chiesa. Non ha incontrato nessuno della nostra comunità che potesse dirgli il valore del loro essere famiglia e aiutarli a vivere questa esperienza in maniera diversa. Lo stile di vita del cristiano è quello che cerca la verità sempre: dobbiamo stare attenti ai luoghi comuni, ai modi di dire, e far diventare l’accoglienza non una questione di assistenza ma un progetto”.A testimoniare le vicissitudini che tanti migranti affrontano nel fuggire dalla propria terra è stato Alidad Shiri, giovane profugo afghano, autore del libro “Via dalla pazza guerra”. A nove anni i talebani hanno ucciso suo padre; pochi mesi dopo sono morte sotto un bombardamento la madre, la sorella più piccola e la nonna. Dal momento che era pericoloso restare, Alidad è emigrato in Pakistan insieme con gli zii, il fratello e la sorella più grandi. Non trovando un futuro in questo Paese, si è rimesso di nuovo in cammino e, con un amico, è arrivato clandestinamente in Iran dove ha lavorato per due anni in una fabbrica di Teheran, di notte perché senza documenti; il tempo di guadagnare abbastanza soldi per fuggire in Europa. “Dopo un lungo e pericoloso viaggio sono arrivato in Alto Adige legandomi, con la tuta che avevo, sotto un tir che partiva dalla Grecia – ha raccontato Alidad rivolgendosi a centinaia di coetanei presenti al Meeting – . Sono 6 anni che vivo in Italia, perché è troppo pericoloso vivere in Afghanistan. Rappresento tanti altri ragazzi afghani che hanno ottenuto l’esilio politico. Vorrei studiare giurisprudenza per aiutare altre persone e difendere le donne e i bambini vittime di ingiustizie. L’Italia è un Paese che sa avere grandi slanci di generosità, anche se si parla sempre di fatti negativi. Ma credo abbia tante potenzialità da esprimere”. Alidad ha poi risposto alle numerose domande dei giovani presenti e partecipato ai vari momenti previsti nel pomeriggio, tra mostre, banchetti, video e musica.
Al termine della Celebrazione eucaristica, presieduta dal Vescovo Greselin nella parrocchia Santa Maria del Suffragio dei padri dehoniani, è stato donato a tutti, come segno e ricordo della giornata, un paio di occhiali. Un invito a “guardare il mondo e le persone con occhi diversi, con gli occhi di Dio – ha detto don Fortunato Monelli – , per essere fermento nella società come cristiani e cittadini, per abbattere le barriere e promuovere l’incontro con l’altro”. |